2046, l'assedio di Lisbona - Jacobin Italia

2023-02-05 17:32:28 By : Mr. Tony Lu

Masha cercò di sistemare il visore ottico, ma non c’era verso. Il caldo aveva deformato tutti i parametri. Fottuto deserto. Le immagini della realtà circostante continuavano a essere inframezzate da quelle dei due recipienti della memoria, la personale e la collettiva. Tra le colline giallo ocra spuntavano ora un vecchio notiziario della televisione russa, ora un ordine militare di servizio, ora frammenti di un’infanzia che Masha sapeva di non aver vissuto, ma di cui era consapevole di aver bisogno. Una bambina in bicicletta per le strade di una città di cui non aveva altri ricordi. Una melodia di compleanno davanti a una torta che probabilmente non aveva mai mangiato. Rischiava di impazzire. L’assedio di Lisbona si era infatti protratto molto più a lungo del previsto, e oramai erano quasi due anni che vagavano nella brulla vegetazione dell’Alentejo, tra selvagge piante grasse e sporadici tentativi di espansione di rachitici vigneti, ultimo ricordo della presenza umana. Il caldo era massacrante, aveva deteriorato i corpi e le attrezzature. Ma a preoccupare Masha era anche la lunghezza dell’assedio. Gli aiuti previsti tardavano ad arrivare. E forse a quel punto non si sarebbero mai visti. Ma l’ordine era perentorio. Attendere il momento giusto e poi entrare a Lisbona. L’ultima frontiera, la battaglia decisiva. 

Masha inserì il braccio bionico armato nell’apposita fenditura, strinse le viti lungo le gambe e provò ad alzarsi. Il fisico rispondeva alla perfezione. D’altronde era un prodotto di ultima generazione. Solo la memoria era completamente frammentata. Colpa del fottuto visore ottico. Adesso apparve nuovamente davanti a lei la ragazza bionda, e provò un brivido lungo la schiena. Quel brivido. Era innamorata. L’eccitazione sessuale era fortissima. Masha si chiese quanto di naturale ci fosse in quella sua emozione e quanto di chimico. Da quando, durante la prima fase della guerra, al politecnico di Kiev qualcuno si era messo a leggere Wilhelm Reich, e si era convinto che l’energia sessuale è la forza più potente che può sprigionare la materia umana, ai soldati era stata aumentata in maniera esponenziale. Le orge e gli amplessi tra i campi e nelle trincee erano diventati pratica quotidiana. I militari scopavano più degli hippies. Ma siccome oramai la necessità di riproduzione era qualcosa da cui la razza umana si era emancipata, e sarebbe stato un bisogno troppo difficile da ricreare artificialmente, questa energia andava alimentata con l’amore, che a sua volta sprigionava il desiderio sessuale. E così oltre a scopare ci si innamorava di continuo, rendendo il Battaglione Azov una meravigliosa macchina di amore e di morte.

Masha si alzò, si sentiva in formissima. I fluidi scorrevano dentro di lei che era un piacere. Guardò ancora la ragazza bionda, e si sentì ancora meglio. Si diresse verso l’accampamento principale, dove il comandante avrebbe impartito loro gli ordini di giornata. Vide intorno a lei una carovana di bambini, la pelle abbrustolita dal sole, che trasportavano taniche e barili. Erano i nativi, i portoghesi, usciti da chissà dove, che portavano al campo i rifornimenti di acqua e cibo per le truppe. Una colonna infame di un’umanità disperata che presto sarebbe stata spazzata via. Se non dalla guerra, dalle temperature che ogni giorno aumentavano sempre più e dalla desertificazione che si espandeva fino al mare. E a guardare quei bambini che arrancavano sotto il sole, storti e incerti, si augurò per loro che la loro fine arrivasse il prima possibile. A confronto del Battaglione Azov poi, un manipolo di esseri superiori, alti, biondi, forti, quei subumani sgraziati e dalla pelle scura le facevano ancora più impressione. Non meritavano di sopravvivere. Avrebbe chiesto al comandante il permesso di polverizzarli, appena finita la riunione. La visione di questa umanità squallida e deteriorata da uno scherzo della genetica fu però nuovamente interrotta da un glitch della memoria. L’ennesimo. All’improvviso Masha vide intorno a sé un paesaggio naturale completamente diverso. Una steppa verde sferzata dal vento e dal gelo. E un altro oceano. Un mare grigio e tempestoso che nulla aveva a che fare con il placido catino azzurro che si intravedeva dell’Alentejo. Vide un’altra guerra e un altro assedio. Vide l’esercito ucraino attraversare lande e monti, superare la Mongolia, costeggiare la Cina, e arrivare a Vladivostok. Vide centinaia di migliaia di corpi senza vita lungo il cammino. Poi vide la città di Vladivostok rasa al suolo, l’immenso porto che si frammentava punteggiato da una serie di esplosioni continue. Vide il cielo rosa e marrone. Colpa degli oloturoidei, i cetrioli marini, le alghe che abitavano quei fondali e che a causa delle esplosioni erano state sparate in aria e si erano come incollate alla volta celeste, colorandola con i loro filamenti. Poi vide di nuovo la ragazza bionda. Non in Alentejo, ma a Vladivostok, ne era sicura. Solo che poi non vide più nulla. E per un attimo si spaventò.

Presto però l’inquietudine lasciò spazio di nuovo all’amore, e Masha prese il suo posto nel cerchio di soldati che si erano radunati nell’accampamento principale. Di nuovo però, la memoria protesica le giocò un brutto scherzo. Ora non era nell’accampamento ma in uno studio del Cremlino, in cui, in un febbraio di molti anni prima, le mani poggiate su un tavolo marrone, una parete dello stesso colore dietro di lui, molto vicina a lui, troppo vicina, Vladimir Putin aveva annunciato l’invasione dell’Ucraina. Era l’inizio della guerra. Era il motivo per cui lei, Masha, era stata assemblata. Bevve un sorso d’acqua, poi un altro, tutto d’un fiato. Senza nemmeno aspettare che i depuratori nella trachea si svuotassero per bene. Cercò di concentrarsi sugli ordini del giorno del comandante, ma di nuovo il visore la rimbalzò in un altro spazio e in un altro tempo. Ecco la guerra. Il suo paese devastato e martoriato. L’aggressore russo, con mezzi scalcinati e di fortuna, che nel suo delirio imperiale radeva al suolo tutto quello che incontrava. Demoliva case, massacrava civili, uccideva vecchi e bambini, inermi e indifesi. Per un attimo apparve di nuovo la bambina che spegneva le candeline sulla torta, in una casa di Kharkiv circondata dalle macerie. E si chiese se quella bambina non fosse davvero lei. Ma della memoria non c’è mai da fidarsi.

Ora Masha era di nuovo in marcia. All’orizzonte appariva incerta la figura del maestoso castello di São Jorge, che dalla collina dominava lo spazio circostante. Erano arrivati in vista di Lisbona. L’ultima tappa della loro missione, pomposamente ribattezzata Operazione Casablanca dal loro presidente Volodymyr Zelenskyj II. Si abbandonò volontariamente alla memoria collettiva e si perse nelle immagini di quel vecchio film in bianco e nero, in quell’altra guerra dove i russi erano sempre nemici e dove arrivare a Lisbona significava salvezza. Oggi invece quella città significava l’ultimo assalto, necessario per finire la guerra. Una volta conquistata anche Lisbona, la Repubblica Ucraina avrebbe finalmente completato la missione di cui la storia l’aveva investita, dominare il mondo per portare la pace. I suoi territori si sarebbero estesi da un oceano all’altro, da Vladivostok a Lisbona, come nemmeno il Khan era mai riuscito a fare. Mancava solo un ultimo tassello al completamento dell’operazione. Lisbona era oramai assediata da cinque anni. La sua caduta era imminente. 

Quando il contingente di fanteria del Battaglione Azov si fermò per una pausa sotto una delle ultime querce da sughero rimaste, un albero maestoso e imponente che nella sua solitudine raccontava un mondo precedente in cui era parte di infinite foreste che attraversavano il paese, attivarono gli appositi pulsanti nei visori e con l’aiuto della memoria collettiva provarono a ricapitolare lo svolgimento della guerra. L’invasione russa. I massacri. La controffensiva. Il colpo di stato contro Vladimir Putin e la sua morte. Lo sfondamento dell’esercito ucraino in territorio russo. L’alleanza con la Polonia e poi con le Repubbliche baltiche. La decisione di riprendersi la Crimea e poi la Georgia. L’inizio di tutto. Nella mente di Masha, però, queste immagini patriottiche erano inframmezzate da fotogrammi assurdi. Putin seduto all’estremità di un lunghissimo tavolo, che si allungava sempre di più fino a distorcersi nelle forme di un malvagio serpente. Il presidente Volodymyr Zelenskyj I che assumeva le sembianze di un orso. Il presidente Donald Trump che il giorno dopo l’assassinio di Putin veniva ucciso anche lui da un colpo di pistola, mentre con la moglie Ivana, sua ex figlia, a bordo di una Lincoln Continental era in coda a un McDrive di Dallas, nel Texas. Masha si chiese se anche gli altri avessero subito lo stesso deterioramento ai visori, o se era capitato solo a lei. Intanto la storia continuava a svolgersi davanti ai suoi occhi e dentro la sua memoria. Seguì quindi lo svolgersi degli eventi, con l’esercito ucraino che decideva di non fermarsi dopo lo sfondamento della frontiera russa. Dopo la Crimea e dopo la Georgia. E in nome della pace continuava a spingersi sempre più verso Oriente. Mentre gli Stati uniti si chiudevano nel loro muto isolazionismo e l’Unione europea si impantanava nel suo apparato burocratico. Ora nella memoria collettiva entravano i primi fluidi di quella personale. E Masha si ritrovò protagonista della presa di Baku e della distruzione di Ulan Bator, prima di fermarsi di nuovo ad assistere alla cerimonia di pace tra il presidente Volodymyr Zelenskyj I e l’imperatore del Giappone Naruhito. L’esercito della Repubblica Ucraina doveva aver già preso Vladivostok a quel punto, ma di quella battaglia non erano rimaste tracce in nessuna delle due memorie. Chissà perché. Provò a potenziare la memoria personale. Era sicura di aver partecipato a quell’assedio. Ne era certa. Ma non trovò nulla. Nemmeno un’immagine della ragazza bionda. Allora, spaventata, guardò intorno a sé e la vide lì, placida, sdraiata sul prato e persa nelle visioni come lei. La ragazza si accorse di essere guardata e sorrise a Masha. Un sorriso malizioso e carico di significati. Un brivido caldissimo percorse la schiena di Masha, precipitandola in una bagno di sudore e di eccitazione.

Lisbona era oramai in vista. La vita sembrava scorrere placida e tranquilla in quella antica città che da innumerevoli assedi era già stata mutilata. La popolazione sembrava interessata solo a cercare dell’ombra sotto cui oziare, come faceva da millenni. La cantilena malinconica delle loro voci rimbalzava sulla collina per poi disperdersi nel mare, attirando il sole e incantando i pesci. Masha oramai si stava quasi dimenticando della battaglia imminente. Era tutta concentrata sulla scopata che si sarebbe fatta con la ragazza bionda. L’eccitazione sessuale era al massimo, l’energia orgonica dilagava possente dal suo corpo. Immaginò una serie di posizioni che avrebbe fatto con la bionda. Decise che non avrebbe usato nessuno strumento artificiale di piacere. A Masha piaceva ancora usare la lingua e le mani. Sono gusti, si disse. Sarà contenta anche a lei. Ma di nuovo il visore ottico le giocò un brutto scherzo. E le immagini dei loro corpi avviluppati nel godimento supremo furono interrotte da quelle di manifestazioni oceaniche che si svolgevano nella vecchia Europa, quella precedente all’occupazione ucraina. Manifestazioni che prima chiedevano di fermare Putin, poi di fermare la guerra, infine di fermare Zelenskyj, non ancora diventato Zelenskyj I. Masha cercò di scacciare queste interferenze, e di concentrarsi sul piacere della scopata con la ragazza bionda. Ma l’imminenza della battaglia, l’eccitazione sessuale cresciuta in modo esponenziale in tutto il battaglione, peggiorò la situazione. Vide di nuovo Putin, il serpente, l’orso, Baku, Ulan Bator e le manifestazioni oceaniche per la pace. Vide la conquista di Berlino e Parigi. Si trovò catapultata in studi televisivi clandestini ad assistere a dibattiti in cui Zelenskyj I era paragonato a Saddam Hussein e Bin Laden, capi di stato addestrati dagli Stati uniti che a furia di ricevere soldi e armi avevano morso la mano del padrone. Si erano rivoltati contro di lui. Avevano deciso di espandersi autonomamente e conquistare i territori limitrofi. E poi il mondo. Saddam e Bin Laden erano stati fermati, con molta fatica e dopo lunghi anni, Volodymyr Zelenskyj rischiava di essere inarrestabile, disse qualcuno. Un europeo, probabilmente. E i fatti gli avevano dato ragione. Volodymyr Zelenskyj I era arrivato fino all’Oceano Pacifico. Volodymyr Zelenskyj II stava per bagnarsi nell’Oceano Atlantico. L’intera terra emersa da Vladivostok all’Alentejo era sotto il dominio ucraino. Il tributo minimo da offrire alla pace. Mancava solo Lisbona. E lei era lì per quello.

Ora si trovava tra i saliscendi dell’Alfama, tra vicoli strettissimi e improvvise terrazze che dominavano l’orizzonte oltre il fiume Tago. Mosaici di azulejos e chiese barocche. Il castello di São Jorge era oramai a un passo. La missione vicina al suo completamento. Quando all’improvviso la rivide. Era lei, la ragazza bionda. Era al suo fianco. Ora la riconobbe. Il visore ottico le rimandò immagini di Iryna Vereshchuk, vicepremier e ministra per la reintegrazione dei territori ucraini temporaneamente occupati durante il primo governo di Volodymyr Zelenskyj. Iryna Vereshchuk in Parlamento, in piazza, in televisione, sui campi di battaglia. La tuta mimetica, l’elmetto. Era lei. Improvvisamente il visore cominciò a emettere strani lampi, sentì scariche di energia partire dal cervello, attraversarle il corpo e uscirle da sotto i piedi. E arrivarono nuove immagini. Quelle che non avrebbero dovuto esserci. Quelle che non avrebbe mai dovuto vedere. Era un altro assedio. Ero lo stesso assedio. Masha e Iryna si trovavano a Vladivostok, anni prima. Erano le punte più avanzate del Battaglione Azov. Avevano già conquistato la Russia orientale, attraversato la Mongolia e costeggiato la Cina. Erano penetrate in città, avevano raso al suolo i suoi centri nevralgici, distrutto strade e ponti. Avevano fatto brillare l’immenso porto che era collassato nell’oceano freddo e grigio. E già gli oloturoidei, i cetrioli marini, con i loro tentacoli coloravano il cielo di rosa e marrone. Di solito le trasmissioni si arrestavano a questo punto. Sempre. Ripartivano con la cerimonia di pace tra il presidente Volodymyr Zelenskyj I e l’imperatore del Giappone Naruhito. Ma questa volta il buco fu riempito. Masha vide Iryna sorriderle, tra le macerie del porto di Vladivostok. E allora capì. Vide Iryna sorriderle e poi la vide tirare una catenina che teneva al collo. Poi vide tutto il resto. Lo vide e lo sentì. Un’esplosione di una potenza incommensurabile, come se ogni cosa si sfaldasse dal suo interno, cominciasse a disgregarsi nel nucleo per poi frammentarsi a cascata verso l’esterno. Era come se ogni oggetto animato o inanimato deflagrasse da un ipotetico dentro verso un inesistente fuori. E in pochi istanti si trasformava in calore e fuoco. Vide il cuore pulsante del sole. Vide un gigantesco fungo atomico partire dal porto di Vladivostok e sollevarsi verso l’infinito oltre l’atmosfera. Adesso Masha ricordava tutto. Adesso capiva. Iryna era la bomba. E come l’aveva accompagnata anni prima nel cuore dell’emisfero orientale, adesso l’aveva introdotta nel cuore dell’emisfero occidentale. Quello era il suo scopo, la sua funzione. Si girò nuovamente a guardare Iryna, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta. L’ultima per quel pezzo di vita. Poi ce ne sarebbero stati altri. Non si sarebbero più fermate, questo era oramai evidente. Guardò Iryna e la vide sorridere, la vide tirare la catenina che teneva al collo e fu invasa da un calore lancinante.

Nello stesso preciso istante, a ventimila chilometri di distanza, un coccodrillo che nuotava mansueto in acque dolci alzò lo sguardo al cielo. Vide un enorme fungo oscurare la volta celeste. Poi, in un tempo che il coccodrillo non era in grado di quantificare, tutto tornò al suo posto. Il panorama intorno al lago di Wanaka, nel cuore della Nuova Zelanda, rimase immobile e inalterato nel suo splendore. Il coccodrillo sorrise, per quanto ne poteva essere capace. E stava per immergersi alla ricerca refrigerio quando un sottomarino elettrico guidato da Peter Thiel III, terza versione criogenizzata del multimiliardario della Silicon Valley, lo tranciò di netto in due nella corsa verso il vicino bunker antiatomico. L’ultimo pensiero del coccodrillo agonizzante fu per l’Alentejo, una terra lontana di cui aveva sentito raccontare mirabolanti storie. Senza però averla mai vista.

Luca Pisapia, giornalista, ha collaborato con La Gazzetta dello Sport, il Fatto Quotidiano e il manifesto. È autore di Gigi Riva. Ultimo hombre vertical (Lìmina, 2012) e Uccidi Paul Breitner (Alegre Quinto Tipo, 2018).

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